“DAVID BOWIE MADE ME GAY”: Un viaggio tra le sfide, le vittorie e le storie di artisti queer che hanno cambiato per sempre il panorama musicale
In uscita il 13 novembre per Il Castello Editore, collana Chinaski “David Bowie Made Me Gay”, dell’autore Darryl W. Bullock, già collaboratore del Guardian, Pitchfork e diverse altre testate internazionali,propone una prospettiva straordinaria sul contributo della comunità LGBT alla storia della musica moderna, esplorando le sfide, le vittorie e le storie di artisti queer che hanno cambiato per sempre il panorama musicale.
Dai quartieri a luci rosse di New Orleans, passando per il jazz, il rock ‘n’ roll, la disco music degli anni 70 e arrivando fino al pop contemporaneo e alla musica elettronica, Bullockracconta le lotte di artisti che, troppo spesso, sono stati costretti a nascondere la propria identità. Il libro sfida il silenzio storico e celebra l’enorme contributo che questi musicisti, affrontando persecuzioni, discriminazioni e battaglie durissime come quella cotro l’AIDS, hanno dato non solo alla musica, ma anche alla causa dei diritti civili, diventando la colonna sonora della lotta per l’uguaglianza.
Il volume non solo esamina il percorso artistico di figure chiave, ma sottolinea anche il ruolo della musica come forza unificatrice e rivoluzionaria per la comunità LGBT. Nonostante i numerosi ostacoli, i musicisti queer hanno calcato i palchi più importanti del mondo, seguendo una celebre affermazione di Tom Robinson contenuta nel libro: “Siate voi stessi, siate fieri di quello che siete e non lasciate che qualcuno vi dica come vivere la vita: è questo il consiglio più importante che mi sento di dare a chiunque.”
Tra i tanti focus presenti nel libro, uno illustra il contributo alla nascita e alla diffusione del blues delle donne lesbiche e bisessuali, un genere musicale che si sviluppò tra la fine del XIX secolo e i primi del XX secolo. Bessie Smith e Gertrude “Ma” Rainey sono due figure chiave: Rainey, più matura ed esperta, divenne mentore e amante di Smith. Entrambe vivevano la loro sessualità apertamente, contribuendo a dare visibilità alle relazioni tra donne nella comunità afroamericana. Il blues, che affonda le radici nei canti afroamericani, parlava di emozioni forti e ingiustizie, e Rainey si considerava la madre di questo genere, definendolo la musica degli oppressi. Nei primi decenni del XX secolo, Harlem divenne un centro culturale per la comunità afroamericana, dove anche le identità queer erano più accettate. Le feste Drag e i balli nel quartiere attiravano un pubblico eterogeneo, permettendo a gay e lesbiche di esprimere liberamente la loro identità. Cantanti come Bessie Smith, che si distinse con il brano “Downhearted Blues”, e Mamie Smith, la prima a registrare un pezzo blues, segnarono il passaggio del genere a un pubblico più vasto. Il blues divenne così una forma di espressione vitale per la comunità nera, arricchita da una forte componente di identità queer.
Altra sezione tematica approfondisce il ruolo del genere country, tradizionalmente associato a rappresentazioni di mascolinità ed eterosessualità. In questo ambito si colloca la figura di Patrick Haggerty, che ha infranto questi stereotipi con il suo lavoro negli anni ’70. Lavender Country è stato il primo album country dichiaratamente gay, affrontando tematiche di identità e giustizia sociale. Le prime registrazioni del country risalgono agli anni 20: il genere ha visto una lenta evoluzione e solo recentemente sta accogliendo figure queer. Haggerty, con la sua band, ha affrontato l’oppressione e celebrato la libertà, mentre il revival del loro lavoro è stato facilitato da uomini bianchi etero nell’industria musicale contemporanea. Grazie ad articoli che hanno evidenziato il contributo di Lavender Country, Haggerty e altri artisti LGBT hanno iniziato a guadagnare spazio nel panorama mainstream. La carriera di Shane McAnally, per esempio, ha dimostrato ulteriormente come l’orientamento sessuale non debba essere un ostacolo nel successo musicale, contribuendo a canzoni di successo e mostrando la crescente accettazione della comunità LGBT all’interno della musica country.
In un altro dei tantissimi racconti del libro viene riportata la storia degli Handbag, considerati il primo gruppo rock inglese dichiaratamente gay, emersero durante il glam rock ma trovarono successo nella scena punk di Londra. Formati da Paul Southwell, Dave Jenkins e Alan Jordan, si esibirono in vari eventi punk e beneficenze per il Gay Lib. Southwell, che si era appena dichiarato, collegò la formazione della band al suo coming out e alla nascita del Gay Liberation Front. Il gruppo ottenne un contratto con Jet Records, ma il loro album rimase inedito dopo la rottura con l’etichetta, causando una grande delusione. Nonostante il rifiuto di alcuni locali di ospitarli per la loro sessualità, gli Handbag si esibirono in diversi luoghi e furono la prima band gay a suonare in un carcere inglese. La loro musica, descritta come una “New Wave intelligente”, rifletteva le tensioni politiche dell’epoca. Nonostante la mancanza di successo commerciale, Southwell credeva che gli Handbag avessero aperto strade per altri artisti LGBT. Altri gruppi punk come i Chelsea e i Buzzcocks contribuirono a legare il punk alla comunità LGBT, con Pete Shelley che divenne un simbolo della rockstar bisessuale. La scena punk di Londra, influenzata da vari artisti e locali gay, offrì uno spazio cruciale per l’espressione e la solidarietà della comunità LGBTQ+ negli anni 70.