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Sono serviti otto anni per scavare a fondo, raggiungere le ossa della terra e cercare di riemergere. Otto anni di dolori, disgregazioni e ricomposizioni, lacerazioni e cauterizzazioni, innamoramenti e disillusioni che hanno, come sempre accade nella vita, lasciato un marchio indelebile, una cicatrice profonda che a volte, sfiorandola con le dita, ti fa sentire, se non più forte, perlomeno sopravvissuto. Passata l’illusione della crescita, i Suez si sono scontrati con un mondo profondamente cambiato. Un mondo sanguinante, un mondo di divisioni, individualismi, ferocia. Un mondo dove l’altro è soltanto qualcuno su cui primeggiare, da sconfiggere e affossare, da sbattere a terra, colpire, calpestare, oltrepassare per raggiungere un tornaconto personale o per semplice derisione, come sfogo alla frustrazione. Un mondo dove nemmeno le atrocità lasciano il segno. Un mondo le cui ossa, sbattendo fra loro, compongono una marcia funebre per ricordarci che l’indifferenza è una malattia incurabile.

La band alt-rock di Cesena – Luigi Battaglia alla voce e ai synth, Ivan Braghittoni alle chitarre, Marcello Nori alla batteria e alle percussioni, Manuel Valeriani al basso – ha reagito alla situazione circostante registrando “The Bones Of The Earth“, il suo quarto album in quasi un ventennio di attività, mixato e masterizzato da Lena Sutter, in uscita in CD e digitale il 16 aprile 2021 via Cagnìn Records a seguire Illusion Of Growth del 2013.

The Bones Of The Earth è un grido di dolore dedicato a chi è ancora capace di soffrire, sognare, costruire una via di fuga verso un futuro migliore. Il quartetto romagnolo ha elaborato le nove canzoni in scaletta nel corso di un work in progress durato circa un lustro, attraversando differenti generi e stati d’animo. “Il nostro obiettivo è sempre quello di creare un risultato riconducibile ai Suez, che suoni familiare, propriamente ‘nostro’, ma allo stesso tempo che si possa discostare completamente dai dischi precedenti”. Il post-umanesimo dei testi si riflette così nell’intarsio post-rock, post-punk, new wave e no wave della musica, contraddistinta da un songwriting scuro ma dalle cangianti aperture strumentali e da un’introversione quasi neo-folk. Il background del gruppo spazia da un punto di riferimento come Nick Cave & The Bad Seeds al legame con The Cure e Wall Of Voodoo, dall’influenza di Teenage Jesus And The Jerks e Young Marble Giants all’ispirazione fornita da formazioni come Pere Ubu, Xiu Xiu e Liars.

The Bones Of The Earth è anche un album fatto di immagini. Partendo da quella di copertina, immortalata nello specifico da Marcella Magalotti ad Aversa, in Campania, durante un lavoro sulle orme del percorso dei migranti, dallo sbarco alle varie strutture di accoglienza: l’obiettivo della fotografa si pone per contrasto su un luogo decontestualizzato che possa rappresentare un sollievo. Per proseguire con le foto che hanno ispirato vari brani: il primo singolo We Are Universe è nato dalla visione dello scatto di un uomo siriano che ritrova i propri figli in un campo di rifugiati e li bacia attraverso il filo spinato, con l’auspicio che ci sia, in questa esistenza, qualcosa che ricolleghi gli orrori procurati dall’uomo all’uomo alle situazioni positive che siamo comunque capaci di generare.

The Bones Of The Earth è un ciondolante vagabondare che ci mantiene legati alla speranza che ci siano ancora lacrime da versare e coraggio per lottare. È un groppo in gola che non se ne va, un nodo allo stomaco che a volte assomiglia più a un pugno ben assestato, altre all’inquietudine che si aggrappa alla schiena della tua giornata.

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