Cesare Basile, uno dei più importanti cantautori italiani in attività, torna finalmente con un nuovo album di studio, a un trentennio esatto di distanza dal suo esordio da solista e a un lustro dal precedente “Cummeddia”. Lo fa con il suo album più scuro e sperimentale di sempre, “Saracena“, in uscita oggil 3 maggio 2024 per Viceversa Records, in vinile e digitale, con distribuzione Audioglobe.

«Puoi scrivere solamente la storia della tua ferita, puoi scrivere solamente la storia del tuo esilio», annotava il poeta palestinese Mahmoud Darwish, tra le principali fonti di ispirazione di “Saracena”.

È lo stesso Basile a introdurci al suo dodicesimo album: «Saracena è canzone d’esilio e spartenza. Canzone di separazione dall’infanzia, dai luoghi, dalla lingua. Canzone di pietre e nomi nascosti, terra calpestata dalle armate degli invasori, case abbandonate, rabbia che esplode il cuore e la carne. Una lunga canzone scritta e registrata di getto nell’arco di due settimane masticando le parole del poeta palestinese Mahmoud Darwish, quelle degli arabi di Sicilia condannati alla nostalgia come Abd al-Jabbar Ibn Hamdis, i versi di Santo Calì, le strofe popolari dell’abbandono di un’isola saracena negli intervalli delle melodie dei suoi Cantaturi. Questi semi pestati insieme nel mortaio della Nakba per raccontare il dolore degli ulivi di Palestina».

“Saracena” è stato composto e inciso nel corso di appena due settimane, innescato da grande urgenza espressiva. Un microcosmo di epica politica in un mondo dove è ormai sconsigliato prendere posizione. Quasi un instant concept album, dove il filo conduttore, quello del tema dell’esodo, è stato dipanato assecondando l’istinto e abbracciando il divertimento del suonare, finanche dell’improvvisare. Continuando a privilegiare il punto di vista dei perdenti e degli esclusi, il musicista siciliano commenta: «In un momento in cui agli artisti si chiede solo di intrattenere le persone senza sollevare questioni scomode o prendere parola sulle ambiguità delle società democratiche, ho sentito il bisogno di affrontare una tragedia che per i più è notizia fruita distrattamente; di provare a capire quanto di universale c’è nel dramma palestinese, e nel farlo mi sono subito reso conto che dovevo agire in velocità, senza rimuginare razionalmente la questione, lavorare nell’urgenza poetica e politica».

L’album è scaturito così come un flusso unico, da fruire e possibilmente abitare come fosse un’unica canzone, sebbene divisa in più parti, otto, corrispondenti a sei pezzi cantati e due interamente strumentali. Guidato appunto dal filo rosso dell’esodo, della perdita e della nostalgia, Basile sapeva di stare scrivendo un solo testo, quindi non ha fatto altro che distribuirlo in varie stanze.

Una di queste stanze è il primo singolo estratto, intitolato “C’è na casa rutta a Notu“, con un video diretto da Andrea Nicotra. A proposito del brano: «C’è na casa rutta a Notu è un modo di narrare la Nakba attraverso un’altra esperienza di separazione, che è quella subita dagli arabi di Sicilia dopo la conquista normanna, un evento molto lontano nel tempo ma testimoniato attraverso la poesia in maniera sorprendentemente simile al racconto dell’esodo palestinese fatto da Mahmoud Darwish. Da qui, deriva anche l’idea di chiamare “Saracena” questa epica del disastro. Un ponte fra luoghi storici e geografici apparentemente distanti ma vicini nelle conseguenze, anche poetiche, del disastro».

Dopo gli acclamati album “Cesare Basile” e “Tu prenditi l’amore che vuoi e non chiederlo più”, “U fujutu su nesci chi fa?” e “Cummeddia”, pubblicati tra 2013 e 2019, il linguaggio adottato in “Saracena” non poteva che essere ancora una volta quello del dialetto siciliano, accostato con piglio innanzitutto avventuroso. Basile precisa: «L’uso della lingua siciliana non è mai stato per me pratica identitaria bensì uno spazio ricco di meticciato, in continua trasformazione e veicolo di continue trasformazioni, una pratica di libertà artistica e politica».

Basile ha giocato a mischiare le carte, ridisponendole con somma naturalezza. Tra queste carte, ci sono strumenti tradizionali, in certi casi auto-costruiti, ma ci sono anche dissonanze elettriche ed elettronica. «Avevo bisogno di una tessitura musicale molto ampia e contraddittoria, mi servivano suoni, rumori, scale poco controllabili, i meandri dei quarti di tono in cui vanno a nascondersi i dettagli più segreti della narrazione, un luogo in cui le forme arcaiche si incontrassero con la contemporaneità dell’elettronica che, come dicevano i Kraftwerk, è il folk della modernità». All’ascolto si incrociano Mediterranean Gothic, echi di musica africana, spettri cinematografici in bianco e nero, emissioni post-trip hop e la guida della musica concreta nel ricavare oggetti sonori da elementi della quotidianità.

Oltre a occuparsi di songwriting, registrazione, produzione e mixaggio, al Canea Nera home studio di Misterbianco, nella natia Catania, Cesare Basile ci ha messo voce, chitarre, percussioni, elettronica, nastri, rebab, baglama e tanpura. Alle esecuzioni partecipano soltanto Francesca Pizzo Scuto alla voce in inglese in Caliti ciatu, Tazio Iacobacci al synth modulare e Puccio Castrogiovanni al mizwad, alla piva e alle percussioni in alcuni episodi.

Quasi superfluo ricordare che, dalla fine degli anni 80 a oggi, Basile ha plasmato una forma-canzone assolutamente unica, tra retaggio punk, vocazione blues-folk e musica popolare siciliana, e ha inanellato molte collaborazioni internazionali, tra le quali ricordiamo almeno quelle con John Parish, Hugo Race, John Bonnair e Robert Fisher, senza dimenticare quelle con colleghi come Afterhours, Nada, Dimartino e molti altri. “Saracena” acquisisce un valore peculiare anche in virtù del suo estemporaneo ma accurato-accorato work in progress in solitaria, contrassegnato dunque dalla più totale indipendenza: «Forse la differenza maggiore fra Saracena e i miei album precedenti è che ho fatto tutto da me, salvo interventi specifici, ma non poteva essere altrimenti. Questo era un viaggio che andava affrontato da solo, dovevo scavare nel fondo più fondo».

Di inevitabile riflesso, il mood generale è improntato a una misteriosa cupezza, che si stempera lievemente nella più onirica sezione finale. «Si tratta di un album decisamente scuro, proprio come mi sentivo nello scriverlo. Quel finale, che nelle intenzioni voleva essere un’apertura, è risultato di un’amarezza sconvolgente – l’amarezza che accompagna ogni utopia e che la sostiene nonostante le sconfitte».

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